“Esisteva una volta una città a misura d’uomo; la sua estensione si spingeva fin dove i suoi abitanti riuscivano a controllarla. La vita al suo interno era organizzata in modo che ogni funzione ed ogni necessità trovassero una loro collocazione spaziale. Le piazze, i mercati, gli edifici di culto, i luoghi iconici della politica e del potere, della giustizia e della cultura, le case, gli spazi dedicati al lavoro e quelli della socialità, tutto era dimensionato, come cucito sulla vita dei propri abitanti e gli spostamenti da un luogo all’altro erano essenziali, veloci, da fare a piedi.
Fuori dalla città si susseguivano le campagne, i boschi e la natura, il limite tra queste due realtà era chiaro e nessuna delle due cercava di prevaricare l’altra. A distanze ragionevoli dalla città ecco che sorgeva un villaggio, un paesino e poi un’altra città, per rispondere alle stesse esigenze di vita a pochi chilometri di distanza. Uno stesso bisogno aveva dato vita a quei luoghi, ma altre mani li avevano costruiti, altri occhi li osservavano. L’identità di ogni città si faceva spazio proprio in quelle connotazioni particolari che la rendevano unica, diversa da tutte le altre. Gli abitanti la riconoscevano come la propria città, ne conoscevano le strade e i vicoli, sapevano fino a dove si estendeva, in quali scorci era più bella e quali panorami si vedevano all’esterno.
Marco stava, come tutti i giorni, sul terrazzo a guardare l’alba che illuminava i tetti della città e colorava le campagne circostanti. Come ogni gesto ripetuto centinaia di volte, ininfluente agli occhi del mondo che continua a ruotare, così Marco guardava la sua città svegliarsi, ancora una volta, da una vecchia notte in un giorno nuovo; le ombre rimpicciolivano all’aumentare della luce, i rumori cominciavano a sovrapporsi via via meno timidi, le persone cominciavano ad uscire per le strade. Marco guardava le vie famigliari della sua città, riconosceva le voci dei vicini, le persone per strada.
Ma qualcosa quel giorno era diverso, qualcosa l’aveva fatto svegliare agitato: si percepiva un’inquietudine, l’atmosfera era carica di energia come se l’aria fosse attraversata da scariche elettriche.Marco percepiva quell’energia aumentare gradualmente, come quando l’orchestra suona un crescendo e le voci dei singoli strumenti si accavallano l’una sull’altra con sempre maggiore potenza e intensità. Il collasso era imminente. Una frazione di secondo, il tempo di accovacciarsi e coprirsi gli occhi, prima che l’atmosfera implodesse: un’esplosione accecante di luce, un boato sordo, poi la fine.
La città era esplosa.
Uno spettacolo sconcertante prendeva forma tra i banchi di fumo, sotto gli occhi di Marco. Quell’ordine di edifici e strade a cui era abituato non c’era più. Il caos dilagava ovunque. I luoghi della città per lui così famigliari erano cambiati inesorabilmente, non riconosceva più nulla e sentiva che nulla si ricordava di lui. Ma la cosa più sconvolgente era quanto la città si fosse espansa, quanto le sue parti fossero state scagliate in lungo e in largo, una distesa infinita di edifici ricopriva il territorio a perdita d’occhio. L’ambiente urbano aveva inglobato la natura e i boschi erano ormai un’ombra verde lontana. Non se ne vedeva più la fine.
Quella città ideale, frutto del desiderio dell’animo umano di poter creare un ambiente perfetto e controllato in cui vivere, che avrebbe influenzato in meglio l’agire degli abitanti, ora non esisteva più.”
La città dopo l’esplosione è cambiata, come fossero passati secoli in un secondo. Ha raggiunto dimensioni enormi, fino a perdere il rapporto con la natura, a inglobarla in un gigantesco organismo costruito in cui si è persa la misura dell’uomo e di conseguenza la percezione della città stessa. Quello che vediamo dopo l’esplosione è la città contemporanea in cui viviamo.
Se avessimo potuto fotografare da un satellite l’evoluzione urbana di una città, dall’antichità ad oggi, e la proiettassimo in timelapse a velocità elevatissima, vedremmo un organismo urbano che si estende e si contrae in alternanza fino ad arrivare all’epoca moderna. In quel momento si avrebbe proprio l’impressione di una città che esplode, che si allarga e ingloba tutto ciò che la circonda, stravolgendo le dinamiche di funzioni e vita al suo interno.
Kevin Lynch, ne “L’immagine della città” (1960), scrive “la chiarezza apparente o leggibilità del paesaggio urbano è la facilità con cui le sue parti possono venire riconosciute e possono venire organizzate in un sistema coerente”. Descrive in questo modo una visione dell’organismo urbano basata sulla facilità di percezione e aggregazione degli elementi e della morfologia che la compongono. Non si fa riferimento ad una specifica città, a specifiche organizzazioni o caratteristiche, bensì l’attenzione è focalizzata sulla “coerenza del sistema”. Allo stesso tempo Lynch parla di una “chiarezza apparente” proiettandoci al di fuori delle mappe e delle cartografie (che hanno carattere definitivo e prescrittivo) verso un’osservazione della città soggettiva, vista dall’interno, percepita dai propri abitanti.
La città contemporanea è un organismo complesso che sta attraversando una profonda crisi, generata da modelli di sviluppo insostenibili. L’espansione incontrollata ha abbattuto il concetto di limite, diramandosi esponenzialmente all’esterno nel territorio, rendendo labile l’unità di un organismo divenuto satellitare. Allo stesso tempo ha generato la perdita d’identità di intere parti della città storica e consolidata, innescando fenomeni di frammentazione e degrado. Queste dinamiche hanno distorto l’immagine della città, definita su una coerenza organizzativa composta da specifici e ben riconoscibili elementi, moltiplicando le forme e i modi dell’abitare.
La vastità di scelte e di possibilità hanno portato allo sviluppo di altrettanti stili di vita che si avvalgono di mezzi differenti (dall’automobile allo smartphone) per rimanere in connessione con la città stessa, provocando al contempo una rarefazione delle attività sociali e della partecipazione alla vita pubblica. Venendo meno una percezione univoca del sistema urbano, gli abitanti hanno perso progressivamente la capacità di distinguerne gli elementi, limitandosi a riconoscere superficialmente le funzioni, i simboli o le criticità. L’inconsapevole perdita di relazione complica il dialogo tra cittadini e contesto, generando incongruenze emotive: sensazioni di sconforto e depressione provocate dal percorrere quotidianamente tratti privi di carattere morfologico; disorientamento, quando ci si trova in una nuova urbanizzazione carente di identità ma piena di case e di strade; paura nell’attraversare aree degradate o abbandonate; indifferenza nel condurre una vita all’interno di un mondo ormai sconosciuto. La percezione della città viene dunque fortemente influenzata dall’empatia che si genera con i suoi abitanti che, per necessità, subiscono la condizione di viverla di continuo. Proprio il punto di vista interno alla mastodontica espansione crea uno stato di assuefazione, determinante per tutte le contraddizioni della città contemporanea, ma che richiede un grande impulso evasivo per essere eluso.
“Tutta quella città... non se ne vedeva la fine... La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?
E il rumore
Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema
Col mio cappello blu
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino...
Non è quel che vidi che mi fermò
È quel che non vidi
Puoi capirlo, fratello? è quel che non vidi... lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne...
C’era tutto
Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello.
La fine del mondo.”
Alessandro Baricco, Novecento
La città vista da fuori per Novecento è troppo, è l’apoteosi dell’infinità delle scelte, delle possibilità, è un mondo che mette in crisi le certezze, che ti schiaccia e ti fa sentire piccolo e disperso, uno su un miliardo. La città nei suoi occhi non è un oggetto da guardare, o una successione di edifici e luoghi da visitare, di posti dove lavorare, divertirsi, studiare, intrattenere relazioni, dove passare tranquillamente la propria vita finita, organizzata tra punti fissi chiari e riconoscibili. Lui riesce a vedere la città nel suo enorme tutto, nel suo essere un organismo mastodontico e caotico, e questa visione lo paralizza.
La percezione della città di Novecento dalla sua scaletta, lui che in una città sulla terra ferma non ha mai messo piede, ci permette una riflessione profonda non tanto su cosa vedrebbe chi la città contemporanea la vede da fuori per la prima volta, ma piuttosto su cosa vedremmo noi. Cosa percepiremmo noi, che nella città passiamo le nostre giornate, che organizziamo la nostra vita secondo schemi fatti di spostamenti, orari, luoghi, incontri, se per un attimo provassimo ad accorgerci di cosa è realmente il mondo che ci circonda?
Questo si propone di essere EXODUS2020, nient’altro che un modo per vedere finalmente il fuori passando necessariamente dal guardare all’interno di noi stessi. Un esercizio di astrazione, un esodo prospettico che ci permetta di riappropriarci della nostra dimensione fisica, di riprendere consapevolezza dello spazio che occupiamo e di quello che ci circonda, di guardare la realtà in cui viviamo con la curiosità di volerla analizzare per comprenderla.
La possibilità di questo cambio di prospettiva va ricercata in piccole correzioni delle nostre abitudini quotidiane, dalla più semplice che può essere camminare guardando in alto e non i nostri piedi, al lasciarsi coinvolgere dalla città fino a perdersi e andare alla deriva, al porsi domande e provare a darsi risposte prima di cadere nella trappola dei preconcetti, al non dare nulla per scontato, assodato o sottinteso.
Se saremo capaci di aprire gli occhi, di farci guidare dall’empatia, di cogliere la struttura della realtà in cui viviamo, le sue dinamiche e le sue motivazioni, allora potremmo slegarci dai preconcetti ed essere partecipanti attivi di questa realtà, capaci di stupirci della complessità dei processi che si sviluppano al suo interno e meravigliarci davanti all’incoerenza delle sue contraddizioni.
Con questo atteggiamento possiamo essere in grado di capire la città contemporanea non solo come somma delle sue parti ma come sovrapposizione di dinamiche e processi complessi e cercare di comprenderla nel suo insieme. Solo allora potremmo dire di avere una solida base per poter finalmente immaginare la città di domani.
EXODUS2020, come tutte le teorie, ha bisogno di un riscontro pratico, di sperimentazione sul campo. Le tematiche che seguono sono caratteri che, a seguito di un esercizio di esodo prospettico, sono risultati (al di là del bene e del male) rilevanti nella struttura della città contemporanea. Sicuramente non sono gli unici, motivo per cui questo manifesto rimane aperto ai contributi di chi si vuole aggregare all’esodo, ma rappresentano una chiave di lettura. L’auspicio è che questa nuova prospettiva ci faccia conoscere la vostra città per come non l’abbiamo mai vista e ci spinga alla curiosità di guardarla con occhi nuovi.
“Marco sta in piedi nel vento, la sigaretta appoggiata alle labbra, sul suo terrazzo all’ultimo piano, il giorno dopo l’esplosione.
Ancora nebbie e fumi colorano l’atmosfera di un grigio chiaro, quasi etereo, trasparente. Il sole attraversa le cortine scomponendosi in fasci di luce, come quelli che passavano dalle persiane di casa di nonna i primi pomeriggi d’estate, quando anziché dormire si perdeva a giocare col pulviscolo.
Guarda questa città immensa, infinita, caotica e affascinante e si sente piccolo. Si sente disperso nel suo essere solo davanti a questa quantità di strade, di piazze, di edifici, di case e di persone.
Ora lo capisce come si sentiva Novecento, sulla scaletta di quella nave, senza essere mai sceso a terra. Tutta quella immensità lo schiaccia. Quella quantità di possibilità, di gente, di posti da vedere, di angoli sconosciuti. Non basterebbe una vita per conoscerli tutti.
Ma lui da quella scaletta sarebbe sceso, lo sta ripetendo più volte a sé stesso come un mantra. Tu scendi da questo terrazzo, da questa casa, e vai nelle strade, la vai a vedere questa città, a conoscere, a farla tua. La vai a vivere perché è la tua città e tu sei parte della sua vita, come lei della tua.”
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